
La fattoria degli animali

Animali, non solo bestie!
L'egoismo è intrinseco nella natura umana. Nel corso dei secoli, ci siamo sempre più convinti della nostra superiorità. Superiorità manifestata non solo a discapito di altre specie ma anche della nostra. Esempi lampanti sono la totale distruzione delle civiltà precolombiane e la schiavitù dei negri.
Come da definizione, il razzismo si riferisce a un'idea scientificamente errata, per la quale la specie umana possa essere suddivisibile in razze biologicamente distinte, caratterizzate da diverse capacità intellettive, valoriali o morali, con la conseguente convinzione che sia possibile determinare una gerarchia secondo cui un particolare, ipotetico, raggruppamento razzialmente definito possa essere definito superiore o inferiore a un altro.
Fortunatamente il razzismo non è più un grosso ostacolo poiché grazie all'istruzione e all'informazione sono state abbattute quelle barriere preconcettualizzate sulle "razze".
Mentre il razzismo è un problema per molti versi superato, è ancora difficile trovare chi riesce a immedesimarsi nella sofferenza degli animali.
Il pensiero comune ritiene che le bestie non provino emozioni (o che non siano paragoniabili a quelle umane) e non si rendano conto di ciò che succede, ma conducano una vita fatta di istinti e impulsività.
Pochi sanno che esiste una moderna disciplina scientifica chiamata etologia, che studia il comportamento animale nel suo ambiente naturale.
Questa disciplina ha antichissime radici, infatti, già con Aristotele (384 a.C.), si assiste all'inizio dell'interesse di natura scientifica nei confronti dei comportamenti animali.
"Superando la visione antropocentrica, che sosteneva l’assoluta centralità dell’essere umano nel creato, la ricerca etologica attuale sostiene l’importanza di una visione biocentrica, capace di mettere la vita stessa al centro dell’esistenza e studia la presenza in ogni creatura, umana o animale, di un’individualità fatta di pensiero, sensazioni e sentimenti".
Viviamo in una società la cui cultura è profondamente antropocentrica. Sin dalla nascita ci viene insegnato che l’essere umano è l’unico possessore di valori morali e che gli animali esistono per soddisfare i nostri bisogni. Questo atteggiamento nei confronti delle altre specie viene giustificato principalmente con la convinzione che, possedendo superiori facoltà cognitive, abbiamo il diritto di manovrare le loro vite.
Una realtà che condanna miliardi di esseri senzienti a soffrire e morire per diventare cibo, pelli e pellicce, per essere sottoposti a esperimenti o per venire rinchiusi e utilizzati in circhi, zoo e altri tipi d’intrattenimento.
E' infatti opportuno soffermarsi su come la nostra società non si ponga assolutamente il "problema animale", ma abbia selezionato poche specie (ad esempio cani e gatti) come intoccabili.
E' facile andare al supermercato, acquistare della carne e cucinarla la sera. Non abbiamo assistito a sofferenza alcuna. Ma è proprio questo il punto, molti non sono consapevoli delle sofferenze subite da muchhe, cavalli, maiali, pecore, polli e galline.
Questa mentalità, consiste in una discriminazione chiamata specismo, caratterizzata da una visione del mondo su scala gerarchica al cui vertice risiede l’essere umano. Al di sotto stanno gli animali, prima quelli considerati d’affezione, tutelati da alcune leggi, sino ad arrivare al fondo. Alla base della piramide ci sono animali costretti a una vita misera, di sofferenze e condannati a morte lontano dai nostri occhi.

Ma non finisce qui. Non solo questi campi di concentramento costringono gli animali in spazi angusti e in condizioni igienico-sanitarie terrificanti, ma hanno un impatto ambientale davvero preoccupante. Le feci provenienti da enormi quantità di animali concentrati in aree relativamente piccole causano inquinamento delle falde acquifere e la contaminazione dell'acqua da parte di colibatteri; nel contempo, le attività legate all'allevamento su grande scala possono causare un depauperamento delle risorse naturali del territorio.
Molti paesi emergenti (il caso emblematico è il Brasile) per entrare nel ricco business della carne, disboscano ampie fette di territorio per far posto a terreni dove far pascolare il bestiame. Questo diminuisce la capacità di assorbimento dell'anidride carbonica e distrugge la biodiversità. In più il continuo calpestio del suolo da parte delle grandi mandrie compatta il terreno, riducendo l'assorbimento delle piogge dando luogo a numerosi fenomeni di desertificazione.
QUALCHE DATO:
L'8 settembre 2008, Rajendra Pachauri, presidente dell'IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), ha presentato a Londra un documento dal titolo “Riscaldamento globale: l'impatto sui cambiamenti climatici della produzione e del consumo di carne”.
In questo documento, l'economista indiano evidenzia che produrre 1 kg di carne ha enormi costi in termini ambientali: l'emissione di anidride carbonica, il rilascio nell'ambiente di sostanze fertilizzanti pari a 340 grammi di anidride solforosa e 59 grammi di fosfati. In termini di comparazione, produrre 1 kg di carne ha lo stesso impatto ambientale di un'auto media europea che percorre 250 chilometri.
In riferimento al consumo idrico, Pachauri sostiene che per ottenere 1 kg di mais sono necessari 900 litri di acqua, per 1 kg di riso 3.000 litri, per 1 kg di pollo 3.900 litri, per 1 kg di maiale 4.900 litri e per 1 kg di manzo 15.500 litri di acqua. Inoltre, il 30% delle terre emerse ed il 70% delle terre agricole sarebbero destinate al settore zootecnico.
Sofia Zuccalà

I campi di concentramento del XI secolo sono gli allevamenti intensivi
L'allevamento intensivo è una forma di allevamento che utilizza tecniche industriali e scientifiche per ottenere la massima quantità di prodotto al minimo costo e utilizzando il minimo spazio, tipicamente con l'uso di appositi macchinari e farmaci veterinari. La pratica dell'allevamento intensivo è estremamente diffusa in tutti i paesi sviluppati.
Oltre alle tremende condizioni in cui questi poveri animali sono costretti a vivere, non bisogna sottovolatura il forte impatto ambientale che queste industrie hanno e la qualità del prodotto che poi arriverà sulle nostre tavole.
La concentrazione degli animali e il regime alimentare forzato, infatti, aumentano lo stress, le malattie e la pericolosità microbica. Sono questi i fattori che rappresentano la causa principale della diffusione degli scandali alimentari come la "mucca pazza".
La "modernizzazione" zootecnica ha riempito i cibi di residui di stimolatori dell'appetito, antibiotici (metà della produzione mondiale di antibiotici è destinata alla zootecnia), erbicidi, stimolatori della crescita, larvicidi e ormoni artificiali. Proprio l'abuso di antibiotici in zootecnia è all'origine del fenomeno della resistenza. Infatti, l'impiego degli antibiotici solitamente utilizzato (basso dosaggio per lunghi periodi di tempo) può portare al diffondersi di nuove forme di batteri resistenti a tali medicinali. Il Center for Disease Control and Prevention statunitense stima che nel mondo, ogni anno, ci siano oltre 76 milioni di casi di malattie portate dal cibo da allevamento, e oltre 5000 morti.
Oltre che per la dignità dell'animale, è quindi chiaro che un allevamento intensivo produrrà carni e derivati animali di qualità nettamente inferiore rispetto agli allevamenti cosiddetti biologici o tradizionali.

